ANDREA PAGNES

intervista a massimo cacciari

 Appuntamenti con la Filosofia 2. Milano: Giancarlo Politi Editore, 1996



Andrea Pagnes: Crisi d’ideologie e di valori. Caduta del comunismo. Il seguente e inevitabile dissesto delle strutture sia economiche che politico-sociali. In una situazione simile, quali possibilità si presentano per individuare e recuperare quelle direttive che oggi sembrano andate perdute?

 

Massimo Cacciari: Ritengo che la crisi del comunismo (se la si vuol prendere emblematicamente come fine dell'epoca delle ideologie) possa essere nient'altro che salutare, nel senso che finalmente, e non soltanto nella riflessione di alcuni, ma ormai anche nel senso comune, bisognerà procedere per distinzioni. Occorre finirla di confondere i diversi linguaggi. Se tutto ciò avvenisse, allora la ricerca filosofica potrebbe nuovamente concentrarsi in se stessa e cessare di essere un surrogato di ideologie, di appelli, di proclami, o anche semplicemente di pseudosociologia, o di pseudopolitica, come lo è stata tante volte in passato. Potrebbe tornare a ciò che è il suo proprio (valga altrettanto per la ricerca artistica) realizzando quelli che erano gli auspici di tanti spiriti nobili di questo secolo che, ahimè, hanno vissuto nel pieno delle ideologie (penso, ad esempio, a Walter Benjamin, quando parlava dell'autore come produttore), e auspicare che si comprendesse finalmente la distinzione metafisica tra ideologia e filosofia, tra ideologia e religione. L'opportunità che viene fornita alle nostre intelligenze in questa fine secolo è grandissima: pensare di nuove per differenze, pensare per distinzioni. Pensare: analiticamente, cioè pensare.

 

AP: Allora la filosofia potrebbe di nuovo incidere fattivamente sul sociale, concentrandosi per migliorare la qualità della vita?

 

MC: La filosofia ha sempre avuto un aspetto anche politico, In tutta la tradizione occidentale, la filosofia, per dirla con Leopardi, ha sempre mantenuto questa irragionevole fede di poter rendere ragionevole la vita. Da questo punto di vista, la filosofia probabilmente continuerà a essere anche politica; ma la filosofia è politica per una ragione esistenziale: a differenza di altre discipline, pensa il proprio oggetto nel e attraverso il linguaggio naturale, il linguaggio della polis, il linguaggio della città. La filosofia è necessariamente politica anche quando non dice nulla di politico in senso stretto. Allora, se riuscisse finalmente di liberarsi di ogni aspetto più o meno parassitario rispetto ad altre discipline, e cioè essere filosofia della politica, filosofia della sociologia, ovvero metodologia delle altre discipline, e tentasse di riacquistare la propria identità - pensare se stessa, il proprio se stesso - potrebbe essere un elemento importante di una, per parafrasare Wittgenstein, opera di bonifica, di igiene del linguaggio.

 

AP: Vorrei soffermarmi sul problema del linguaggio. Una corrente di pensiero come lo strutturalismo può essere tuttora valida o denuncia ancora dei limiti, un problema di comprensione di fondo, soprattutto per la sua difficolta di applicazione?

 

MC: Sai, non si tratta di applicare alcunché. Una volta entrati in questa nuova dimensione, dove vengono meno i linguaggi universali che inglobavano in se tutti gli altri, è chiaro che non hai più nessun linguaggio che, in quanto tale, ti permetta di far luce sulla complessità dei giochi. Non vi è più nessun Metodo. Viviamo in un'epoca che è tutto "contro" il Metodo. Per questo motivo, anche i vari discorsi di impianto strutturalistico che ancora, bene o male, anelavano a una metodologia universalmente applicabile, a fondare un'ermeneutica universalmente valida, mi paiono ormai da tempo tramontati. È un problema, semmai, che riguarda più strutturalismi, ovvero tanti approcci specifici, semanticamente controllati, all'interno della storia, del divenire, dei diversi linguaggi. Ma non c’è dubbio che lo strutturalismo, storicamente, si delinea come metodo, anzi è l'ultimo grande metodo, probabilmente, delle scienze umane europee.

 

AP: Riguardo all’ermeneutica, Gadamer scrive che di fronte a un’opera d’arte dobbiamo trovarci necessariamente coinvolti, poiché nostro dovere è quello di interpretarla.

 

MC: L'ermeneutica ha aspetti molto diversi. Spesso, dal punto di vista strettamente teoretico, è banale. D'accordo, un primo livello di complessità viene definito dall’assolutamente indisgiungibile relazione tra soggetto e oggetto, ovvero tra interpretante e interpretato, dove l'interpretante non è semplicemente un punto imedico fuori dell’interpretato, che lo giudica astrattamente dall’esterno… ma, questa è consapevolezza filosofica molto antica. Questo tipo di complessità nella relazione tra soggetto e oggetto, a saperla leggere, a saperla interpretare come si deve, è consapevolezza fin dai grandi testi della filosofia classica. Per non parlare poi dell'idealismo che è tutto centrato su questo aspetto: "Nessuna cosa senza interpretazione". Hegel dice che non c'è né in terra né in cielo nulla che non sia insieme mediato e immediato. Da nessuna parte troverai semplicemente "immediato", ovvero la cosa, e da nessuna parte troverai semplicemente "mediato", la posizione della semplice mediazione concettuale, della semplice riflessione. Da un certo punto di vista, l’ermeneutica, allora, non fa altro che rendere esplicito un percorso che è del tutto immanente alla storia della cultura filosofica occidentale europea. Se escludiamo alcune posizioni assolutamente obiettivistico-trascendenti - senza far confusione con il significato di trascendentale in Kant che invece è tutto dentro a quanto appena detto - l'ermeneutica non fa altro che sviluppare, appunto, queste che erano consapevolezze forti di tutta la tradizione filosofica, soprattutto della filosofia moderna e contemporanea. Le esplicita e le applica con particolare rilevanza proprio nel campo estetico, nel campo della riflessione sull'oggetto d'arte, dove questa idea di complessità soggetto-oggetto è al centro della speculazione estetica, critica e del lavoro artistico degli ultimi due secoli.

 

AP: Allora ognuno può costruirsi una propria ermeneutica?

 

MC: No, non è esatto, perché l’ermeneutica seria non finisce in nessun relativismo. Questa complessità si definisce e si colloca all’intero di sistemi interpretativi ben definiti. E mio dovere conoscere il contesto di quell’oggetto, la storia del suo linguaggio, la storia della relazione tra quell’oggetto, il suo linguaggio e il “pubblico”. Una posizione ermeneutica seria non si conclude mai in uno sciocco relativismo. Se così non fosse, questo significherebbe nient’altro che non c’è la cosa e c’è solo l’interpretazione, la mia interpretazione vale la tua e viceversa, ma non è affatto cosi.

 

AP: Eppure sembra la “malattia” che ha colpito l’attuale critica d’arte.

 

MC: Sì, pero rimarrei sempre cauto nel gettarci ceneri sul capo. Questo e sempre stato vero. Per comprendere qual è la direzione effettiva di qualsiasi lavoro devi anzitutto guardare le vette, non i fondivalle. I fondivalle sono sempre stati pieni di nebbie, di residui e di scorie che vi precipitano. C’è un’ermeneutica nel campo della storia dell’arte e della critica che non è affatto “idiota”. L’ermeneutica e particolarmente interessante quando cessa di essere metodologia e diventa invece proprio una critica sul campo, una messa in pratica.

 

AP: Per arrivare a definire anche la qualità di un’opera?

 

MC: Per definire anche la qualità, nel senso molto specifico del termine, ovvero la complessità e la ricchezza di informazioni. In sostanza e proprio questo ciò che un buono strutturalismo, che non sia una metodologia universale, e una buona ermeneutica permettono. Permettono di definire, o quantomeno tentare di avvicinare, la ricchezza informativa di un’opera che si basa sulla portata delle innovazioni che produce nella storia del suo linguaggio; per definire questo e necessario conoscere la storia di tale linguaggio, il contesto dell’opera, e, come sempre, avere inevitabilmente l’avvertenza che noi giudichiamo quell’opera dal nostro punto di vista. Ad esempio, quando scrivo su Caravaggio devo tenere presente che il mio e il punto di vista di uno della fine del Novecento che scrive su Caravaggio; quindi, devo sapere che nella mia analisi porro una serie di elementi che derivano dalla storia successiva a Caravaggio stesso. E questo devo controllarlo, perché l’ermeneutica mi invita, mi induce anche a controllare questo effetto di necessario anacronismo, di necessaria distorsione che produce ogni analisi su un’opera del passato. E tutte le opere sono passate, attenzione: e di questo che avverte l’ermeneutica “avvertita”. Quando giudico una tua opera che mi porti oggi e hai fatto ieri, giudico comunque un’opera passata. L’attività ermeneutica, l’attività critica, come l’attività filosofica, viene sempre post festum. Ecco che allora l’ermeneutica avverte la netta distinzione tra ciò che e l’attività critica e ciò che e l’attività poetica. Il vero critico, sulla base dei limiti che l’ermeneutica detta, analizza sempre opere passate. Dal punto di vista teoretico non cambia nulla che siano passate da ventiquattro ore o da ventiquattro secoli, sono opere passate che io giudico in quanto tali e che devo giudicare sempre con lo stesso metodo, quello di cui parlavo prima, e mai fare opera di poetica. E infatti il grande vizio di tanto linguaggio critico banale e quello di confondere continuamente l’esercizio ermeneutico con l’esercizio di poetica, ovvero di non parlare di quell’opera, ma dei miei desiderata sull’evoluzione dell’opera d’arte, sul futuro dell’opera d’arte, dei miei gusti su quello che per me sarebbe un’opera d’arte “bella” o “interessante”. Allora avviene una confusione, una commistione fra linguaggio ermeneutico e linguaggio di poetica. Questo diventa deleterio nel 99% della produzione, appunto banale, di critica, di manifesti di critica, di commenti di un’infinita di cataloghi, che non sono un discorso ermeneutico, ma sono un discorso di poetica. Il discorso di poetica e del tutto ammissibile quando lo fa il poeta, ma e inammissibile quando lo fa il critico. Questo è uno degli insegnamenti fondamentali di un’ermeneutica avvertita, consapevole dei propri limiti.

 

AP: Un artista a suo modo politico come Beuys considerava decisiva l’esperienza del dialogo e della comunicazione, anche in relazione alla massa. Ora, in un certo senso, la “modernità” ha creato un’enorme fattura tra quello che è il prodotto artistico e la massa dei fruitori. Spesso ci si trova di fronte a pensieri e considerazioni fatti da sofisti, basati unicamente sulla persuasività, sull’allusione. Viene cosi a mancare quella che è la ricerca di un’etica e di verità in senso proprio. Non si scende più sotto la superficie; forse mancano le capacita, forse i presupposti necessari. Beuys, come altri di un passato non troppo lontano, viene portato in palmo di mano, ma l'essenza del suo pensiero, del suo messaggio, non viene granché approfondita.

 

MC: Sì, ma bisognerebbe interrogarsi appunto su quale fosse la verità che il gesto di Beuys voleva porre alla luce, perché, probabilmente, si scoprirebbe che questa verità è assolutamente irripetibile. In più, se quel gesto venisse ripetuto, diventerebbe automaticamente falso. Voglio dire, in certe ricerche - e qui in fondo ne va del destino dell'arte contemporanea-, le più radicali, tra le quali c'è sicuramente quella di Beuys, qual è il problema, qual è, appunto, la verità che esprimono? C'è poco da fare, è sempre quella – interpretata correttamente e non in modo volgare - della morte hegeliana dell'arte. Perché dico interpretata in modo autentico e non in modo volgare? Perché Hegel non si è mai sognato di dire che l'arte cessasse di essere arte, o che non ci fossero più artisti. Hegel intendeva dire che l’arte contemporanea assumeva come proprio tema quello della morte, e quindi della sua stessa morte. Questo diventava il tema dal quale l'arte contemporanea non avrebbe mai più potuto districarsi. Hegel diventa veramente comprensibile sonante con le esperienze più radicali dell'arte contemporanea successive a impressionismo, espressionismo e futurismo. Nell'impressionismo si ha ancora a che fare con la verità non più dell'oggetto contemplato, ma dell'io che contempla. È il punto di vista dell'io che viene rappresentato secondo criteri naturalistici in senso scientifico. È ancora il punto di vista dell'io che domina nell'espressionismo. E ancora domina nelle scomposizioni futuriste. Questa dimensione di morte dell’arte, correttamente intesa, inizia invece con le esperienze più radicali di Malevic, con Mondrian in parte e poi con il grande gioco, il riso di Duchamp, da cui, secondo me, viene poi tutto, Beuys compreso. Parte tutto da li. Ma che cosa avviene, qual è il valore. Il significato di quella rivoluzione? Non è più la fine dell'oggetto bello (che finisce con l'impressionismo), non è più la fine delta verità dell'io - che è quella dell'impressionismo e che cessa appunto con tutte le esperienze antiretiniche (Malevic, Mondrian) - ma è, e in questo il profeta è già Duchamp, la fine dell’espressione: "perché la rappresentazione?". Questa è la domanda, che è successiva, ed è questa la domanda hegeliana: l'arte contemporanea in quanto arte mentale, arte della riflessione, arte che ha perso ogni rapporto con l'immediato, arte che è quell'insieme, quel complesso di mediato e immediato che prima si diceva: quest'arte ha dunque a che fare, come proprio unico oggetto, con la morte, quindi con la propria stessa morte. E allora, l'arte contemporanea, in tutti i suoi aspetti (Duchamp e Beuys da un lato, Cage dall'altro) è di fronte a questo dilemma: o mettere tra parentesi questa affermazione – chiamiamola cosi - hegeliana, o ignorarla tout court, o viverci dentro criticandola continuamente, che è poi la situazione di Beuys. Oppure che cosa? Questo è il grande dilemma che la rende anche cosi difficilmente comprensibile.

 

AP: Siamo giunti al punto che l’opera e diventata solo un modulatore ambientale.

 

MC: Esattamente. Non impressiona più niente, non traumatizza più alcunché, non fa più pensare e tradisce dunque la quintessenza della grande arte contemporanea che è tutta meditativa e riflessiva, che e tutta mentale: un'ascesi intellettuale purissima.

 

AP: La gente fatica sempre di più ad accostarsi, a comprendere l’arte contemporanea.

 

MC: Per la gente comune è difficile proprio per questo, poiché la grande arte contemporanea è puramente riflessione. Le cause stanno probabilmente nel nostro bagaglio, come dire, anche biologico. Nella rappresentazione artistica cerchiamo, forse ancora, inconsapevolmente, una delectatio, anche estetica e immediata, oppure qualcosa di fronte a cui pregare, cioè un oggetto di culto, qualcosa inserito in un contesto culturale. Ora, l'arte ha perso completamente questo suo inserimento. Come si fa a non valutare la straordinarietà di questo fatto? Dovrebbe essere il primo capitolo di ogni riflessione. Dal punto di vista anche sociale, storico, destinale, la prima riflessione da fare è questa: l'arte contemporanea - e questo straordinario caso l'aveva visto chiarissimamente Hegel, accanto all'aspetto teoretico che abbiamo prima analizzato - è stata del tutto decontestualizzata rispetto al suo carattere religioso-cultuale. Non era mai accaduto, mai. L'uomo comune, probabilmente, ha nel suo bagaglio biologico questa inclinazione a vedere in ciò che viene rappresentato un qualcosa che ha a che fare con il mondo del divino e dell'ethos, dai mammut nelle caverne al Partenone. Quando questo rapporto risulta tranciato e colloca l'uomo comune di fronte a dei segni, l'interpretazione di un sistema di segni senza ancoraggio simbolico a un significato forte è difficilissima, perché a quel punto è come se dovesse conoscere una lingua specializzata.

 

AP: Il rapporto tra arte contemporanea e bellezza potrebbe essere colto ancora nel rapporto con il divino, sempre ammesso che uno ci creda?

 

MC: Il rapporto con il divino non è un rapporto con un divino personale, è un rapporto con un sistema cultuale, e questo via via, nella storia dell'arte europea e occidentale, si spezza. Tuttavia, fino a un certo punto, l'immagine artistica, il bello artistico, ha mantenuto rapporti con un universo simbolico che, bene o male, era l'universo comune. E’ nell'epoca idealistico-romantica che si ha la grande, irreversibile crisi, per la quale l'arte non tiene più alcun rapporto con un universo simbolico comune, anzi perde di simbolicità volutamente e non diventa un universo, che nei grandi artisti è perfettamente coerente, radicalmente ed eticamente, al suo interno, di segni. E allora, o sei a conoscenza di tutta questa storia e apprezzi la radicalità con cui un Duchamp o con cui un Beuys sviluppano questo discorso di morte dell'arte, o altrimenti non hai gli strumenti per relazionarti a questo. Succede, dunque, che diventa patetico andare a vedere una mostra d'arte contemporanea, anche dei più grandi autori, e assistere al pubblico che assiste alla mostra. Diventa patetico perché il povero disperatamente quegli aspetti che possano ricordare l'arte bella: spiano all'interno di queste opere quello che gli possa ricordare qualcosa di ciò che hanno visto nel museo accanto. E non è che abbiano torto, loro comprendono: quando dicono "non capisco!" hanno ragione; è un modo del tutto esatto, da un certo punto di vista, di relazionarsi all'arte contemporanea. E’ la loro mancanza di comprensione che andrebbe invece spiegata, anziché cerca di coprirla. L'opera della critica è del tutto diseducativa da questo punto di vista, perché invece di lavorare proprio sull'impossibilità di comprendere da part e del pubblico comune e spiegare al pubblico, appunto, perché è difficile comprendere, cerca di farlo capire dicendo un'infinità di banalità, ovvero riducendo sempre di nuovo quest'opera a un universo, bene o male, simbolico comune che non esiste più. Non si tratterebbe tanto di cercare di far capire - e come poi? con che cosa? con quello che nausea in tutti i cataloghi delle varie mostre? - quanto invece di lavorare su questo, sul fatto che "sì, tu non capisci".

 

AP: Cercare di conferire all’arte la forza per poter essere nuovamente anima del mondo e l’intelligenza per essere significato della realtà; era quanto auspicava Schiller, per la poesia soprattutto. Affermazioni che oggi hanno il sapore di un’evocazione, certo. Ma non pensi che riproporre questo, come obiettivo, possa suscitare stimoli positivi?

 

MC: Vedi, dopo Schiller c'è Hegel. Secondo me il discorso hegeliano supera irreversibilmente i tentativi schilleriani da un lato, e anche romantici dall'altro, di ritrovare nell'arte questa sorta di organo universale - e, attenzione, è poi questa la vera finalità sia di Schiller sia di tanti circoli romantici -, di costruire una comunità di senso. Tutta la grande arte contemporanea va in una direzione consapevolmente opposta: è una critica di ogni ideale comunitario, non v'è alcun dubbio, non c'è nulla di comunitario nell’espressione artistica contemporanea. Vi è, semmai, un atteggiamento radicalmente critico, antidogmatico su cui tutto si potrà costruire fuorché una comunità. E’ l’irriducibilità di questo singolo, anche quando viene esposto un cesso. E’ proprio la decontestualizzazione totale per mostrare il singolo irriducibile all'universo della fruizione. Come si fa a inventare una comunità che non sia una comunità di scambio, una comunità appunto che ha, come dire, un aspetto anche mercantile? Vedi, secondo me il discorso va sempre periodizzato a partire da Hegel, i discorsi schilleriani e romantici sono un passato.

 

AP: La figura dell'artista oggi. Si può definire artista colui che ha la capacità di coniugare nel modo più coerente possibile il mercato con le evoluzioni della tecnologia e della scienza, nonostante vi siano, all’interno di questi due "momenti", sostanziali differenze di tenuta e di velocità?

 

MC: Eh sì, ma la velocità è una caratteristica... è una grande lezione futurista. Un'arte che non interiorizzi il problema dell'universale Mobilmachung sarebbe reazionaria, e non è da escludere che ci possa essere anche una grande arte reazionaria, come c'è una grande letteratura reazionaria. Basta, anche qui, vedere il grado di coerenza della sua espressione. Tentativi di grande arte reazionaria ce ne sono stati. Voglio dire, il problema della velocità, e da qui il problema del rapporto con la tecnica in tutti i suoi aspetti, si impone all'arte contemporanea. Ci può essere anche una scelta reazionaria, ma questo rapporto si impone comunque, Anche qui, però, occorre vedere quanta informazione ci dà questa espressione attorno a questa relazione. Ci sono delle espressioni artistiche che pongono il problema di questa relazione, ma che non danno alcuna informazione perché ripetono certe acquisizioni tecniche e lì si fermano. Si collocano all’interno di questo processo tecnico, di queste acquisizioni per mimarle e non danno alcuna informazione, e quindi sono povere, poverissime. Ci sono altre espressioni che invece si rapportano polemicamente, non dal punto di visto strettamente pertinente all'aspetto tecnico, all'apparenza tecnica, ma dal punto di vista del gioco che la tecnica sottende. Allora compiono alchimie strane all'interno dei saperi tecnici e danno informazione. Voglio dire, invece che mimare quest'aspetto tecnico, di mostrarti la televisione e le immagini della televisione, reinvento le regole del linguaggio televisivo e te le mostro.

 

AP: Riusciresti o dare una definizione riguardo al concetto di creatività in senso stretto?

 

MC: Questo è, in tutte le discipline. Non è nient’altro che questo. Non esiste un concetto di creatività come pura originalità, perché non esiste un'originalità pura se non quella del Padreterno che crea ex nihilo, ammesso che ci si creda. Bisogna quindi bandire assolutamente il termine là dove per creatività si intende originalità. Là dove invece la si intenda per ricordo immaginativo, per memoria immaginativa - una memoria del proprio linguaggio e della sua storia che proprio in quanto memoria la reinventa e la reimmagina ogni volta - allora il termine ha una sua validità, sempre nei limiti del nostro esserci finito. Per Dio sarà un altro problema.

 

AP: Consideri il postmoderno più uno stile o una dominante culturale?

 

MC: Non so, non sono mai riuscito a capire cosa significasse, perché tutte le persone che hanno parlato di postmoderno, per quanto mi riguarda, non hanno che parlato del moderno, quindi non ho mai capito in che cosa il postmoderno si distinguesse dal moderno. Tutti gli autori che hanno parlato di postmoderno hanno parlato di ciò che io avevo sempre, nella mia beata ingenuità, pensato fosse il moderno, e quindi di tutte le questioni che poi abbiamo affrontato fin qui. Per me questo è il moderno, da almeno due secoli a questa parte. Han detto che questo è il postmoderno? Cosa posso dirti? E’ un dibattito che non m'ha mai minimamente interessato, perché non ne ho mai scoperto la rilevanza semantica. Queste cose di cui abbiamo parlato fin qui piace chiamarle postmoderne? E allora? Certo non morirò per un "post'', ma che cos'abbia di "post" m'è sempre sfuggito. Secondo me, al di là di queste battute, in questi termini ne va anche tanto di cultura alla moda, di filosofese alla moda, della continua, necessaria richiesta del mercato di avere termini nuovi, al di là di quello che poi possano significare. Con questa ricerca di termini nuovi non c'è da farne drammi come fanno alcuni… "ah, il mercato che obbliga ... ", e via che si strappano le vesti. No, il mercato non obbliga niente, non ha mai obbligato nessuno. Nessuno è mai stato obbligato a dire stupidaggini o a dire oscenità per il mercato. Certo, il mercato oggi ha una sua velocità, ma fa parte di quelle regole del gioco che sono le più automatiche, le più facili anche da affrontare, quando uno sia davvero deciso. Ed è questo, sempre, il ritratto della grande arte: fai, perché devi. Se devi non c'è mercato che tenga, fai. Morirai di fame, ma non importa assolutamente niente: fai se devi. Se invece per te è una cosa che puoi fare, ovvero ne hai la capacità, sei bravissimo, magari, ma che non senti di dover fare, allora sarai sicuramente servo di ogni meccanismo di mercato, come prima di mecenati più o meno stupidi. Finiamola con questa sociologia tardofrancofortese che esalta questi aspetti che sono, ripeto, gli aspetti certo esistenti, ma più deboli del gioco. Finiamola con l'esaltare i termini che banalizzano tutto a una sociologia dell'arte nel senso più deleterio.

 

AP: È possibile pensare a etica ed a estetica come a un'unica cosa?

 

MC: L'ho appena detto, la grande arte è etica perché nasce dal "devo", dal Sollen più puro, dalla necessità di fare qualcosa: "io devo fare quest'opera". È la famosa battuta di Schöenberg, quando gli chiedono, quando era in guerra: "Ma lei è il famoso compositore Arnold Schönberg?". E lui risponde: "Qualcuno doveva farlo e l'ho fatto io, qualcuno doveva essere Schönberg e l'ho fatto io". L'arte nasce dal “devo”. Dopodiché, certo, può anche naufragare contro i duri scogli dell'esistenza, però nel frattempo le opere le avrà lasciate.

 

 

Venezia, Maggio 1993

 

 

Cacciari

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ANDREA PAGNES

intervista a franco rella

 Appuntamenti con la Filosofia 2. Milano: Giancarlo Politi Editore, 1996



Andrea Pagnes: Sulla contaminazione dei linguaggi nella produzione artistica contemporanea. Sui conseguenti, inevitabili effetti di parassitismo che l’immagine artistica esercita nei confronti dell’immagine poetica pura all’interno dei processi creativi.

 

Franco Rella: Per millenni il privilegio conoscitivo è stato affidato non alle arti, ma alla filosofia e alle scienze. Queste, a loro volta, si basavano su presupposti metafisici che, in ultima istanza, trovavano il loro fondamento nella filosofia. È a partire dal Romanticismo, ma soprattutto dal secondo Ottocento, ovvero da quella che George Steiner definisce “la rottura del patto mimetico tra rappresentazione e realtà”, che vengono posti in discussione tutti i linguaggi, anche quelli che in passato avevano avuto un particolare privilegio conoscitivo. La rottura del patto mimetico significa che non esiste niente che garantisce la corrispondenza tra un segno, un significante, una rappresentazione e la realtà. Per dirla con Mallarmé, la parola ‘fiore’ non ha luogo in nessun mazzo di fiori. Il fatto che non vi sia alcuna garanzia per l’operatore linguistico, a qualsiasi livello esso si ponga – e dunque filosofico, scientifico o artistico -, di trovare una verifica immediata della sua formazione linguistica, comporta un’enorme responsabilità etica, perché da un lato tutto è dicibile (nemmeno la morte è un limite, dice Steiner, alla parola), dall’altro siamo noi stessi responsabili di quanto diciamo. Il nostro secolo è stato interamente caratterizzato dal tentativo di verificare, dopo la rottura di questo patto, la tenuta dei linguaggi attraverso una miriade di sperimentalismi. Ma è stato caratterizzato anche da un’ansiosa ricerca di ritrovare un fondamento al linguaggio stesso. Questo significa lo “spirituale nell’arte”, “le rappel à l’ordre”, il tema dell’origine. L’arte concettuale che prende le mosse da Duchamp è tutta dentro questo tentativo: è la tensione platonica a trovare un referente al gesto linguistico non più nella realtà esterna, ma nella mente dell’artista, in una sorta di archetipo ideale. Il linguaggio ridiventa mimesi, imitazione, anche se di un ordine spirituale, tradendo così la portata della rivoluzione implicita in ciò che abbiamo chiamato “rottura del patto mimetico”. Io credo che le ricerche più spinte, a livello artistico e forse anche scientifico, del nostro secolo, abbiano, recuperato un senso per così dire cosmogonico. Non vogliono rappresentare una realtà, ma illuminare zone della realtà che prima di questo atto linguistico erano oscure. L’opera d’arte qui ha la sua vocazione più autentica. Quella, come dice Steiner, di sporgerci verso il mistero. Un’opera d’arte che non faccia questo è immorale, kitsch. Ma per arrivare al punto della domanda sulla contaminazione o sull’intreccio dei linguaggi, ritengo che su grandi temi si confrontino varie modalità del pensiero, e che queste modalità abbiano linguaggi confrontabili. Questo confronto ha avuto luogo in tutti i grandi momenti della storia dell’umanità (si pensi al Rinascimento e al rapporto difficilmente districabile tra arte e, teoria dell’arte, filosofia, filologia). Trovo banale, a volte discutibile, l’inserimento della parola poetica nell’opera figurativa (Cindy Sherman, Joseph Kosuth) in cui questo inserimento ha valore di una sorta di surplus poetico. Lo stesso vale per gli architetti (per esempio nella mostra di Milano dell’86, Il progetto domestico): hanno proposto non architetture, ma readymade, rinunciando allo specifico del loro linguaggio. Sono anche queste operazioni “concettuali” in cui si è persa però quell’ironica disperazione, il nihilismo esasperato, che c’era alle origini: in Duchamp, in Fresh window, la finestra coperta di cuoio nero, o ne La chute de l’eau, in cui lo spettatore viene costretto nel ruolo di voyeur. Qui c’è una dimensione tragica che mi pare oggi perduta. E probabilmente si è perduta nella complicità di un certo sistema (Bonito Oliva lo chiama il “sistema dell’arte”). L’opera, invece che aprirsi al mistero, viene ribadita nella sua “artisticità” da una serie disperata di fonti, il critico, il museo, il pubblico, il mercante. Così finisce per non dirci più nulla all’infuori del fatto che essa è un’opera d’arte, in una sorta di chiusa autoreferenzialità. E’ ciò che Broch già negli anni Trenta chiamava il kitsch.

 

AP: Si parla molto di etica, di necessità di ripensamento e di distinzione tra le molte discipline, eppure ci si trova sempre di fronte a una moltitudine di appropriazioni indebite.

 

FR: Ancora sulla dimensione etica potremmo ricordare un romanzo di un noto scrittore post-modern americano, Nicholas Baker. In questo romanzo il problema capitale è se sia meglio sorbire la Coca Cola, come in passato, attraverso cannucce di carta, che affondano, e permettono dunque contemporaneamente di mangiare la pizza, di tenere in mano un libro, ma che s’intridono e perdono di capacità, oppure con le cannucce di plastica, che sono sempre uguali, ma che galleggiano rendendo problematico bere mentre si fanno altre cose. Questo è il problema estetico e metafisico del romanzo. Perché questa insignificanza divenga un simbolo dell’insignificanza del mondo – perché dunque il romanzo possa avere un senso qualsiasi – è necessario un editore che lo pubblichi; un critico che affermi appunto il valore simbolico (ma in realtà meramente allegorico) del nulla che abita il libro. La stessa cosa mi pare capiti con Merz, per esempio. Quando deposita un mucchio di legna, o di materiali, in un museo, c’è la messa in moto di un apparato, o di una macchina di senso che porta ad accettare il cumulo come valore. Il sistema in cui i produttori e gli utenti dell’opera sono complici nell’affermare che tale opera è opera d’arte, le precludono il suo senso più profondo: quello di esser apertura a qualcosa che non è già dato e già conosciuto e già codificato.

 

AP: Sul fatto che, stando così le cose, l’opera d’arte perde parte della sua forza comunicativa.

 

FR: Come ho già detto, l’artista si muove in un circuito, che può assumere un tale prestigio da comunicare se stesso feticisticamente come valore. Il produttore, il critico, il museo, il pubblico e il mercante garantiscono dell’”artisticità” dell’opera proposta, la quale, in questo sistema, comunica appunto questo significato: il valore che le è stato imposto. Non viene così tradita la comunicazione, che anzi è ipergarantita e sovradeterminata da una serie di canali ben controllati  lungo tutto il suo percorso: da controllori che in ogni tratto del suo percorso garantiscono che ciò che lì transita è arte, e che come tale va “venerata” (e pagata). Viene tradito ciò che Klee chiamava bildnerisches Denken: il pensiero specifico della pittura. Infatti dipingere ha un senso soltanto se, attraverso la pittura, illumino delle zone della realtà e del mondo che altrimenti, senza questo pensiero e questa pratica, rimarrebbero oscure. Ha torto Bonito Oliva quando pensa che il pensiero dell’arte sia un più che il critico porta all’opera. Dipingere non è un’abilità, come non è un’abilità scrivere una poesia o una partitura. E’ un destino. E più precisamente il destino di portare all’essere e all’esperienza realtà irraggiungibili dal pensiero concettuale, da quella che Schlegel e Leopardi chiamavano la ragione solo ragionante. E ciò che viene portato all’essere è la moltiplicazione degli orizzonti del possibile, per esempio quello che Leopardi vede al di là di questa siepe. Dietro ogni orizzonte c’è un altro orizzonte. E’ questo che dev’essere portato a visibilità.

 

AP: E’ quanto viene sancito anche nel testo Oltre la linea di Jünger e Heidegger.

 

FR: Questo testo investe anche questa dimensione: la visone della molteplicità degli orizzonti, la visione dell’uomo che si proietta in una realtà ulteriore. Parlarne è compito dell’artista, del pittore, del poeta: è un compito fondamentale perché qui, in effetti, si gioca anche il destino dell’uomo in rapporto al mondo. E questo avviene a tutti i livelli dell’agire artistico. Quando un pittore colora una cosa, porta qualcosa che nel mondo di prima non c’era: una sorta di surplus, di eccesso, di oltranza. Baudelaire in un passo del Pittore nella vita moderna afferma che il rossetto che colora le guance di una donna, o il nero che ne cerchia gli occhi, non è l’enfasi della giovinezza, o il nascondimento dell’età: l’occhio cerchiato di nero sottolinea la natura propria dell’occhio, che è quella di essere una finestra aperta sull’infinito. E’ proprio questo artificio , questo surnaturalismo, questo desiderio di andare oltre, al di là dei limiti naturali, che è il compito precipuo dell’artista, del poeta.

 

AP: E’ anche il tentativo della realtà virtuale, per quanto l’ipotesi di base, il dettato di fondo muova sempre da Platone.

 

FR: La realtà virtuale, come oggi è intesa, si è imposta con la mostra Les immateriaux, curata da Lyotard al Centre Pompidou nel 1985. Idea straordinaria: metter in mostra immagini computerizzate, virtuali, possibili, che non hanno un referente oggettuale, e obbligare lo spettatore a straniarsi dai codici abituali che stabiliscono l’ordine del reale. La mostra non era all’altezza dell’idea che la muoveva, idea che troviamo anche in letteratura, per esempio im Giustizia di Dürrenmatt. Dürrenmatt afferma che ciò che chiamiamo realtà non è una crosta sull’infinità dei possibili. Prendiamo una realtà, e proviamo a spiegarla a partire da ipotesi altre rispetto ai codici abituali. Ecco che la crosta si apre, e s’intravvede un tragitto completamente altro, diverso. LA grande arte forse si muove su questo piano: realizza una possibilità latente con il massimo rigore possibile. Se, per esempio, una mattina Gregor Samsa si sveglia da sonni inquieti trasformato in un immane insetto… La giornata, il tempo, il mondo ne sono stravolti. Un altro senso emerge.

 

AP: Sul fatto che artisti e poeti, più che mirare a cambiare o modificare la realtà, nei loro processi creativi tendono a riscontrare qualcosa di incompreso o di incompiuto nella realtà come si presenta loro, e di conseguenza eseguono.

 

FR: Cambiare la realtà è compito dei politici, e dell’artista quando agisce nella sua vita politicamente. Ma il vero compito dell’artista è quello di farci vedere ciò che nella realtà senza il suo intervento noi non potremmo vedere. Questo è il suo compito. A Valéry chiesero quale fosse il suo impegno per la patria e contro il nemico durante la Prima guerra mondiale. La sua risposta fu: tradurre perfettamente le Georgiche di Virgilio. Amo questa risposta. Impugnare il fucile e sparare può essere necessario, ma non è arte. Interroghiamoci piuttosto su quale sia il contenuto politico specifico di ogni grande opera d’arte. Coltivare il suo amore per la differenza fino al punto da rendere impensabili carri armati che rendono tutti uguali. E sto parlando di ruspe reali, ma anche delle ruspe della metafisica, della politica, dell’ideologia ecc. La grande arte è resistenza perché legittima tutte le ipotesi possibili, e si contrappone organicamente e strutturalmente a un’unica interpretazione coattiva del reale, che è propria dei regimi politici. Questo è il fondamento etico e politico dell’arte: quello di essere un linguaggio che ha cura delle differenze che abitano sulla Terra.

 

AP: Sulla critica d’arte. Anche come disciplina letteraria. Sul fatto che oggi manca di una metodologia rigorosa, in senso stretto.

 

FR: La critica militante è stata letteralmente inventata da due personaggi che critici non erano: Diderot e Baudelaire. Quest’ultimo sarà poi il più grande critico del XIX secolo. Anche nel nostro secolo, nei momenti più vivi e aperti del dibattito sulle arti, per esempio nelle avanguardie storiche, c’è una critica d’arte che è quasi sempre all’altezza delle opere: una critica di artisti e di poeti che si muovono nel contatto costante con l’opera, mettendo in gioco una pluralità di linguaggi (poetici, estetici, filosofici, teorici). Longhi, Ragghianti, Panofsky ci hanno raccontato stupendamente l’arte. Oggi ho l’impressione che il critico d’arte sia un operatore inserito in un circuito, dove ha più senso la sede in cui si scrive, gli artisti e i movimenti di cui si parla, i musei e le gallerie cui si fa riferimento, che il faccia a faccia con l’opera senza la quale non vi è critica. Se devo essere sincero ho poi l’impressione che questa critica spesso manchi di cultura. E’ affascinata da proclami, da slogan – pensiero debole, postmodern, decostruzionismo -, che sono assunti però nei loro aspetti più immediati e superficiali, tanto che Lyotard ha dovuto scrivere un Postmoderno spiegato ai bambini. Insegue i simulacri di Baudrillard, del tutto ignaro della fondazione fenomenologica di questo pensiero. Mi pare, in definitiva, una disciplina debole, che si confronta sociologicamente con un sistema, quasi mai con le opere. Anche gli storici dell’arte, quando hanno stabilito il loro iter filologico, quando ci hanno detto di committenti e collezioni, si fermano, come se compito dell’opera fosse quello di nascondere nel suo ventre queste informazioni, e non i misteri che sono il mistero del mondo.

 

AP: Sulla durata dell’opera d’arte contemporanea. Sulla durata del suo messaggio.

 

FR: Lo aveva già detto Baudelaire: l’opera d’arte nel moderno viene al mondo come aspirazione all’eternità, e, insieme, come precarietà. È il destino dell’arte moderna: la sua cifra tragica. Questa fragilità, che tende all’eternità, è lo stigma della realtà stessa che l’arte ci propone. Il suo senso è il senso che l’arte di oggi trasmette al prossimo millennio. Ho parlato di cifra tragica. Basta percorrere i musei che presentano la contemporaneità: gli apparecchi di Oldenburg trasformati in mucchi flosci e irriconoscibili; i collage con oggetti arrugginiti e sdruciti, più antichi delle tombe egizie; i neon dell’arte concettuale, che nel loro movimento dovevano proporre una lettura ambigua, assolutamente decifrati nella scoloritura che li rende trasparenti. Queste opere non sono restaurabili. Restaurarle sarebbe rifarle: sarebbe rifare all’infinito dei falsi. Questo è un novum nella storia dell’arte. Ogni opera ha una sua fragilità dovuta a fattori esogeni e a fattori endogeni. Ma in queste opere la fragilità ne è il senso primario, tanto che l’artista l’ha esaltata spesso come fattore unico della sua opera, per esempio negli happening o nella land art. Gli artisti che fanno della fragilità una festa, danzano gioiosamente una tragedia che forse non hanno compreso fino in fondo. Infatti, esaltando il polo della precarietà trascurano l’altro polo: la tensione all’eterno e alla verità. E nel momento in cui questa opposizione – tra fugace ed eterno -, opposizione non negoziabile, viene interrotta, rimane una sorta di delirio giocoso: una danza felice e beota sull’immediatezza. Viene spezzata una di quelle opposizioni inconciliabili – sempre l’aspirazione all’eterno si scontra contro il limite umano, limite he diventa soglia per un altro limite – in cui consiste il mistero dell’arte.

 

AP: Per i poeti, la parola pura, vera, nasce dal silenzio. E’ possibile affermare la stessa cosa dell’immagine?

 

FR: Sì, anche se l’immagine tende alla parola, a farsi segno, comunicazione, essa nasce dal silenzio. Ma qui dovremmo aprire un discorso. La tradizione dominante in Occidente, da Platone ad oggi, ha fatto dell’immagine, e di ogni segno figurale, un linguaggio perverso, di cui ci si può servire in mancanza di meglio, ma da abbandonare appena sia possibile tradurlo in un concetto stabile. Henry Corbin, studiando la gnosi persiana e araba, ha individuato tre dimensioni del pensiero umano: la percezione sensibile del reale, il concetto, e, in mezzo a loro, il regno dell’intermedio dell’immagine, del pensiero immaginale. Questo pensiero corre nascosto anche in Occidente, ed emerge in Rilke come in Klee. Ma vorrei fare un esempio, citando un paso stupendo dallo Zibaldone di Leopardi, - come è possibile richiamarlo alla memoria senza l’appoggio del testo -. Leopardi esprime il suo amore per le grandi città, o le folle, dove la luce è interrotta, e questo impedimento permette di procedere oltre con l’immaginazione. Stiamo attenti: immaginazione non è fantasia, che è una forma minore, forse impoverita e pervertita dell’immaginazione. E’ invece la capacità di far transitare su queste soglie del pensiero tutte le realtà che sono ulteriori al pensiero. Pensiamo alla poesia L’Infinito: “…questa siepe che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude…”. Attraverso questa siepe, attraverso lo stormire di queste foglie, attraverso la visione di questo limite, transitano “le morte stagioni e la presente / e viva e il suon di lei”: tempi e spazi si sovrappongono nel “naufragio” della ragione solo ragionante, e nell’apertura alla ragione immaginale. Il visibile diventa lo spigolo che ci rende percepibile l’invisibile. Questo è anche l’insegnamento di Cézanne. Non vediamo mai tutta la mela: non vediamo il cono d’ombra che è nascosto dietro di essa e il cono d’ombra che essa proietta sul mondo, segnando di quest’ombra il mondo stesso. E’ necessario rappresentare la parte visibile della mela in modo che attraverso essa diventi percepibile anche la sua parte nascosta, anche quella parte del mondo he è sempre segnata dalla sua ombra. Per questo Cézanne è, come ha detto Handke, un Menschenleher, un maestro d’umanità. Colui che ci ha insegnato ciò che sta oltre il confine e la pratica dell’arte come il compito di essere sempre su questo confine. Diceva Ortega y Gasset che noi non vediamo un bosco, ma una cortina di alberi. E’ la nostra immaginazione che ci consegna l’”invisibile” del bosco. Ma questo vale anche per le emozioni, per le passioni, per i pensieri dell’uomo.

 

AP: Sul recupero e sulla ricostruzione del mito in talune espressioni artistiche.

 

FR: C’è un interesse archeologico nei confronti del mito, così come qualche anno fa la Transavanguardia nutriva interesse per le forme dell’avanguardia storica, quasi fosse un libero repertorio iconografico a cui attingere. Ma dietro il richiamo del mito, comunque lo si riproponga, c’è sempre una profonda esigenza: la modernità, quella che noi oggi chiamiamo modernità, si apre con le parole di Hölderlin che si appella al “dio venturo” affermando che il dio che deve venire viene da Tebe, e quindi da un crogiuolo mitico e tragico, e venendo guarda all’indietro, alla sua origine. Lo sguardo di Dioniso, richiamato da Hölderlin, ci riporta a una delle zone decisive del pensiero occidentale: al mito nella tragedia. Che cosa scopre il mito? Il mito svelava, e continua a svelare, il mondo come un insieme di contraddizioni irrisolte; lo svela all’uomo quale essere che vive un conflitto irrisolvibile tra vita e morte, tra maschile e femminile, tra selvaggio e civilizzato, tra umano e divino. Tali contraddizioni non sono risolvibili perché nel loro conflitto costituiscono l’essere umano nel suo rapporto con l’altro e con il mondo. Il recupero del mito, anche in chiave ironica (penso persino a Savinio), fa sempre trasparire questo aspetto terribile che il mito manifesta: l’incontro con l’altro come contesa.

 

AP: Come scissione?

 

FR: Prendiamo l’aspetto del rapporto tra maschile e femminile. O è morte della differenza nel possesso, oppure è la scoperta di una divisione e di una separazione invincibili e insormontabili. Il mito, da questo punto di vista, è il recupero di un pensiero affacciato a queste contraddizioni, fino al punto in cui esse appaiono come un vicolo cieco. Simone Weil, uno dei cervelli più acuti di questo secolo, dice che quando ci troviamo di fronte a un vicolo cieco, alle prese con una contraddizione irrisolvibile, siamo allora di fronte alla parte che vale la pena aprire.

 

AP: Sull’uso della metafora come forma di economia espressiva (per dirla con Borges). Sulla necessità del lavoro di sottrazione, sulla disciplina e sul rigore nel processo creativo affinché questo non diventi un gioco dell’intelletto fine a se stesso.

 

FR: Difficile pensare a regole in rapporto a un’avventura come quella dell’arte. Tuttavia, proprio perché nell’arte non è in gioco una mera rappresentazione, o un’espressione di sentimenti, o di lacerti di storia o di ideologia, ma il compito di illuminare parti del mondo oscure e invisibili, in essa c’è un compito che, questa tensione cosmogonica, dev’essere perseguito con il massimo rigore possibile. Alla fine solo il rigore garantisce l’emergenza del significato.

 

AP: Nelle Lezioni americane Calvino dice che gli sarebbe piaciuto vedere un romanzo scritto in una frase: un assurdo o un’ipotesi possibile?

 

F.R.: Lo si può pensare. Calvino dice mi piacerebbe. È l’idea che un processo di scrittura, o di produzione artistica, rigorosissimo, possa portare a un’estrema condensazione significativa, tale da tradurre il mondo in un quadro, una vicenda in una frase, o in un breve testo. Si tratta però non di un processo spontaneo. Tutt’altro. L’espressione diretta dei sentimenti si esprime piangendo o ridendo o urlando o mordendo, e tuto questo ha un’intensità superiore a quella di qualsiasi frase. Se il compito dell’arte fosse quello di esprimere sentimenti, l’arte sarebbe un processo di un costo e di una complessità insensati. Il neonato piangendo si esprime e comunica alla madre con efficacia assoluta i suoi rifiuti, la sua fame, la sua rabbia e la sua gioia. Pensiamo invece che rabbia, gioia o dolore siano l’accesso a una dimensione del mondo. Barcelò porta il dolore fin dentro la materia, dentro la crosta del mondo, svelando il meccanismo sacrificale che lo regge e o rende terribile. Siamo oltre il sentimento. Il senso del dolore diventa compito, nel senso che diventa la via da costruire per giungere a una verità che non è immediatamente leggibile nel mondo, ma nemmeno nel mio dolore. L’arte non è dispendio perché il suo compito non è immediatamente né espressivo né comunicativo, ma conoscitivo, di una conoscenza che non è raggiungibile con altri linguaggi  o con altri mezzi. Dostoevskij afferma che la matematica dice con assoluta certezza che 2+2=4: questo va bene per l’intelletto che su questa certezza costruisce le sue procedure. Non ha valore alcuno per l’inconscio, per le passioni, per quello che Dostoevskij chiama “l’uomo del sottosuolo”. Il problema sollevato dal Dostoevskij non è solo un problema estetico, ma, per così dire, metafisico, che investe la posizione dell’uomo in rapporto al mondo, al pensiero, alla realtà, alla vita.

 

AP: Quando la logica poetica e artistica sono in grado di garantire la verità della finzione.

 

FR: Una volta una visione del mondo veniva compresa come esclusiva di altre visioni del mondo. Oggi, anche l’epistemologia si è resa conto che accanto alla teoria, o all’immagine del mondo, di Galileo o di Newton o di Einstein, c’è la visione del mondo di Canaletto e di Kandinskij. L’una non esclude l’altra, e quindi non ha più valore la vecchia dicotomia vero/falso: abbiamo a che fare con finzioni, ipotesi, ognuna delle quali ha verità. Il problema diventa dunque quale sia la posizione dell’uomo di fronte a un fascio di verità plurime. Ho l’impressione che oggi tra queste verità plurime, quella che esprime più in profondità l’interesse umano sia quella dell’arte. Proust più che Heidegger. Questo non toglie nulla alle scienze o alla filosofia, ma ne sottolinea, a differenza del passato in cui erano egemoni, il carattere locale e parziale. L’essere al mondo, il perché noi siamo al mondo, qual è il senso del nostro essere al mondo, non lo troviamo più nelle metafisiche che stanno alla base delle pratiche e delle abilità scientifiche. Forse lo troviamo nell’arte: nell’intreccio delle storie degli uomini e delle donne, che sono nei romanzi, nelle poesie, nei quadri. Una delle esperienze capitali del moderno, quella della grande città, luogo sconfinato, pieno di pulsazioni temporali e contraddittorie, di velocità, stasi e mutamento, è un’esperienza che solo l’arte ci ha proposto a livello conoscitivo. La velocità, ad esempio, come accesso ad una diversa visione delle cose.

 

AP: Velocità che appartiene e si contiene nel concetto di bellezza come lo s’intende nella sua accezione moderna.

 

FR: La bellezza, in passato, non aveva alcun rapporto con l’arte: era la manifestazione visibile dell’armonia del mondo e dell’armonia di Dio. Dal Settecento l’armonia diventa intrinseca all’opera, e dà piacere senza più rinviare a questa dimensione metafisica. È soltanto nella modernità che la bellezza diventa il senso stesso della dissonanza, la capacità di dare forma alla diversità, alla complessità del mondo, delle differenze, delle contraddizioni. E dunque anche alle cose rese molteplici e deformate e disabituali della velocità. Baudelaire prima e Dostoevskij dopo teorizzano questa nuova bellezza. Dostoevskij afferma (ma lo ripeteranno Calvino e Brodskij) che la bellezza salverà il mondo in quanto è l’unica forma che tine insieme i poli di una contraddizione inconciliabile. La bellezza dell’arte è dunque la cura delle differenze, contro l’appiattimento, la distruzione delle differenze. L’arte nasce, vive e si muove in quella che i filosofi chiamavano con orrore regio dissimilitudinis, la terra delle dissomiglianze.

 

AP: Sul concetto di creazione nell’arte, partendo dal presupposto che non c’è creatio ex nihilo.

 

FR: Creazione è portare nel mondo qualcosa che prima nel mondo non c’era. L’arte è questo: l’ombretto di cui parlava Baudelaire, il tatuaggio di cui parla Hegel nell’Estetica. Anche il prigioniero che affigge una pagina di Playboy alla parete della cella e fa di un muro opaco una trasparenza aperta sul sogno e sul desiderio. Sì, anche questo sogno rozzo, è creazione: dilatazione di uno spazio limitato a una dimensione ulteriore. Questa è la creazione artistica, dai livelli più elementari ai livelli più alti. Sempre più vera di un’opera che non aggiunge nulla al mondo e che, protetta dal sistema di cui abbiamo già parlato, si consegna come tale, come un feticcio.

 

AP: Sull’affermazione schilleriana: riconsegnare all’arte la forza per essere anima del mondo e l’intelligenza per poter essere significato della realtà.

 

FR: D’accordo sull’affermazione schilleriana, ma non su quello che nasconde dietro di sé. Schiller voleva fondare un’educazione estetica basata sulla nostalgia della grecità olimpica. Hölderlin e Nietzsche ci hanno dimostrato che questa grecità era una finzione. Ma oggi della frase di Schiller possiamo prendere la tensione a una conoscenza estetica, in cui l’arte si propone come ponte, un transito verso il reale: anche quello barbarico e dionisiaco che Schiller non aveva visto nella Grecia. Questo ci permette di andare oltre alla danza intorno all’arca vuota di senso, al carattere circense di tante manifestazioni, compresa la Biennale. Oltre il ludico, che spesso è, suo malgrado, funerario perché il gioco diventa la bara del senso. Cadute ideologie, estetiche, visioni totali del mondo, possiamo dire che l’arte fonda significato nella relazione tra il soggetto e il mondo, tra l’io e l’altro. Manifestazioni come la Biennale, anche per le loro stesse dimensioni, faticano a rendere perspicuo questo livello, e finiscono per testimoniare una realtà sociologica e un aspetto fenomenologico, ma non il pensiero dell’arte. Forse bisognerebbe arrivare a una selezione delle tendenze più significative, ridurre la potenza prometeica e mefistofelica dei direttori, che vorrebbero fare, con le forme altrui, la propria opera d’arte. Bisognerebbe creare relazioni stabili e produttive con l’università e con altre istituzioni. Creare un centro di ricerca e documentazione che funzioni davvero, a più livelli: dall’educazione permanente, all’aggiornamento degli insegnanti, ai masters. Anche a livello informativo si potrebbe fare di più. Invece di portare migliaia di opere, alcune veramente poco significative, ci potrebbe essere per tutto l’anno la documentazione visiva in tempo reale delle cento manifestazioni artistiche più significative di tutto il mondo. L’archivio di questa documentazione visiva potrebbe rendere disponibili nel duemila migliaia di manifestazioni che hanno caratterizzato tutta l’ultima fase del secondo millennio. Sono un po’ stanco dell’esaltazione dell’effimero. Per i cantori dell’effimero sembra che l’unica cosa eterna si il loro canto: la loro perpetua celebrazione dell’effimero stesso.

 

 

Venezia, giugno 1994

Rella

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